Ma come! Parliamo ancora di questo?!

IL DOPOGUERRA A LIBBIANO

Ma come! Parliamo ancora di questo?! E’ vero: sembra un argomento vetusto, strausato quando non si ha altro di cui parlare… Ma ho scritto SEMBRA.

In realtà quello fu un momento molto particolare, veramente difficile, per tutta l’Italia e per Libbiano, sperduto nella campagna pisana, in particolare.

Le stringenti ristrettezze economiche largamente diffuse provocarono l’ultima ondata di emigrazione verso luoghi molto lontani (data la saturazione raggiunta dai Paesi europei o le Americhe).

Questo fenomeno migratorio non ha toccato i libbianesi che hanno sempre cercato in ogni modo di arrivare a sbarcare il lunario.

Certo! Vedendo il decoro di un paesino con strade asfaltate e case in pietra ben ristrutturate, la luce pubblica, l’acquedotto in tutte le case, il benessere delle persone, quelle che racconto sono situazioni difficili da immaginare, quasi sembrano novelle. Ma non lo sono.

Proviamo a immaginare Libbiano in quei tempi; case fatiscenti, una povertà da tagliare col coltello e strade sterrate: polverose d’estate e percorse e scavate da mille rivoli d’acqua in inverno. Visi fieri e scuri ma magri, scavati dalle inevitabili privazioni; persone spossate dai duri lavori nella macchia (boschi); qualche uomo andava a lavorare a Larderello partendo la mattina molto presto e tornando giusto giusto per cenare e andare a letto. Le donne si occupavano di quanto era possibile (e anche impossibile), accudivano la casa e crescevano figli; le più fortunate andavano a fare i bucati omerici nelle ville dei signori (poche, molto poche) magari affrontando trasferimenti a piedi, nei sentieri della macchia, che duravano anche ore.

I ragazzi non potevano che partecipare a questa gara di sopravvivenza; al mattino andavano nella scuola elementare del paese e nel pomeriggio sottraevano il tempo al divertimento per dedicarlo ai lavori in aiuto ai genitori, agli zii, ai nonni, si stringevano nelle spalle e si schernivano dietro la frase “Oooh! Ve(d)rraiiii….” che segnava un destino poco gradito ma al tempo stesso accettato nella sua ineluttabilità.

I vestiti erano sdruciti dall’uso prolungato e dai continui adattamenti; per le calzature… beh, parlare di scarpe sarebbe un sogno: scomodi zoccoli artigianali e ciabatte erano ai piedi di tutti.

E l’inverno? Le temperature rigide e i forti venti freddi che s’incuneavano in ogni vicolo avrebbero voluto case calde e confortevoli mentre erano scaldate a malepena dai focarili dove veniva bruciata la legna di cerro presa nella macchia. Per trovare i letti un po’ più accoglienti, di sera veniva messo il “prete” col “cardano” pieno della brace presa dal focarile: quelli erano i veri unici rifugi confortevoli.

A proposito, qualche donna, per puro scherzo, diceva che sarebbe andata a letto col prete! 😀

Lo scaldaletto detto anche prete o trabiccolo con lo scaldino appeso.

La realtà era questa e se potete immaginare ancora qualcosa di più sofferente e privo di ogni agio, fatelo.

Un giorno dopo l’altro, senza altre prospettive.

Se queste parole sono riuscite a farvi immaginare le condizioni precarie dei libbianesi nel dopoguerra, allora saprete con quale spirito leggere altre due storie di questo blog:

Le ragazze libbianesi a Livorno

Erano solo guanti e maglie

Note:

  • prete o trabiccolo: un telaio di legno a forma di cupola o a culla di forma oblunga e simmetrica con gancio metallico nella parte più alta.
  • cardano o scaldino: recipiente per lo più di terracotta o di metallo a forma di piccolo secchio che, riempito di brace ricoperta da uno strato di cenere, si usava per scaldare le mani o, appendendolo al trabiccolo, per scaldare i letti.

Paolo Bartalesi

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