Spoon River

Edgar Lee Masters (Garnett, Kansas 1869 – Melrose Park, Pennsylvania 1950)

La prima volta che lessi l’Antologia di Spoon River avevo sedici anni e il bisogno di uscire fuori da me per uno sguardo sul mondo. Non sapevo bene qual’era la differenza tra la letteratura inglese e quella americana. Amavo il teatro. Leggevo Shakespeare e le sue tragedie. Ammiravo la perfezione di Christopher Marlowe e l’intensità di John Webster.

Masters mi offrì i suoi versi sciolti, liberi, osservando la “Piccola America” del suo tempo e la giudicò come fosse una formicolante commedia umana. Il germoglio corrotto della sua città di provincia, che diventò il ritratto della mia.

Il libro inizia con una elegia sul cimitero e prosegue con 240 personaggi che ci sfilano davanti, lamentandosi di aver mancato la felicità, quando erano in vita. Il poeta guarda i suoi morti con occhio compassionevole e a tutti fa pronunciare la loro confessione, fatta di sconfitte, vittorie, amori e battaglie.

Per una adolescenza come la mia, che covava dentro il germe dell’anticonformismo, Spoon River diventò un’interessante esperienza. I personaggi di Masters, come i morti di Dante, mi sembrarono più vivi che in vita, ma non appartenevano ad uno schema universale, bensì a loro stessi. Per niente in Pace, anche nella tomba. Li imparai a memoria, uno per uno, li riconobbi e mi riconobbi in loro.

Ho tirato fuori dal coro le voci più vere, guardando al messaggio estremo del libro, che sembra essere questo: solo le anime semplici riescono a trionfare nella vita.

Simona Cerri Spinelli

 

Francis Turner

Io non potevo correre né giocare
quand’ero ragazzo.
Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa,
non bere –
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’é un giardino di acacie,
di catalpe e di pergole addolcite da viti –
là, in quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary –
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
l’anima d’improvviso mi fuggì.

 

George Gray

Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito;
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme.

 

Elisabeth Childers

Polvere della mia polvere.
e polvere con la mia polvere,
oh bimbo, tu che moristi mentre entravi nel mondo,
morto con la mia morte!
Che non conoscesti il respiro, per quanto provassi,
e il cuore ti batteva quando vivevi con me,
e si fermò quando mi lasciasti per la Vita.
E’ bene così, bimbo mio. Così mai percorresti
la lunga, lunga strada che comincia coi giorni di scuola,
quando i ditini si appannano sotto le lacrime
che cadono sulle lettere storte.
E il primo dolore, quando un piccolo amico
ti abbandona per andare con un altro;
e la malattia, e il volto della Paura accanto al letto;
la morte del padre o della madre;
o la loro vergogna, o la miseria.
L’infantile dolore dei giorni di scuola finisce
e la natura cieca ti fa bere
alla coppa dell’Amore, benché tu sai che è avvelenata.
A chi si sarebbe levato il tuo viso fiorito?
Quale sangue avrebbe gridato all’unisono col tuo?
Puro o contaminato, non importa,
è sempre sangue che fa appello al sangue.
E poi i figli – oh, che cosa sarebbero stati?-
E quale il tuo dolore? Bimbo! Bimbo!
La Morte è meglio della Vita!

 

(Prima edizione: Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Giulio Einaudi, Torino 1943.)

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